La vaghezza dell’intervento

Ever noticed how the Italian word intervento can range across countless semantic fields? It is definitely one of those pesky words that translators from the Italian often end up at loggerheads with.

Here are some of the semantic fields in which intervento appears in Italian. As you can notice, the first few examples overlap with their English counterparts.

  • intervento in politics, such as American intervention or military or police intervention = intervento americano, intervento della polizia, intervento militare.
  • intervento in the medical field, a surgical intervention, though surgery is perhaps more common = intervento chirurgico.
  • intervento in the religious sphere, divine intervention = intervento divino.
  • in law, intervention and intervento also seem to mean the same thing.

Interestingly, in English some of these collocations can be quite strong as in ‘surgical intervention’, which helps clarify what kind of intervention we’re talking about. By contrast, Italian simply uses ‘intervento’ to refer to a medical procedure that often requires surgery, while allowing the listener to infer its precise meaning from context.

We then move on to that kind of intervento that seems to be more widespread in Italian than in English.

  • Architectural intervention, though found in specialized journals and magazines, is not half as common as the ubiquitous intervento architettonico.

Before coming to a greater rift between the two languages, where:

  • Intervento di restauro o di manutenzione is definitely not an intervention here. Perhaps maintenance work, renovation work or conservation work. Interventive conservation does, however, exist. Which should not be confused with conservative intervention, a medical term.
  • Intervento musicale = a klutzy phrase that has no direct equivalent in English. A musical performance? Interlude or intermezzo definitely sound much better, though they differ somewhat from what Italian speakers mean by ‘intervento musicale’.
  • intervento (correttivo) for correcting something: a correction, a remark, a comment.
  • intervento (accademico): this could range from presenting a paper at a conference to any speech or written contribution.
  • intervento tecnico = service or technical service

Finally, a couple of instances where the meaning of intervento is closer to response:

  • pronto intervento = emergency response
  • tempi d’intervento = response time

Similarly, the English verb intervene occasionally behaves somewhat differently than its Italian counterpart. Sentences like intervenire a un congresso simply means to ‘speak or be a speaker at a conference’. And ringraziare gli intervenuti ( a noun derived from the participle) is to thank the speakers or participants. By the same token, a sentence like five months intervened between the outbreak and the end of the epidemic is probably best rendered as intercorrere.

On a final note, with regard to intervento accademico or intervento a una conferenza,Virginia Browne’s otherwise excellent 1987 edition Odd Pairs and False Friends reads that:

You will forgive me for intervening, but I wouldn’t go that far.

Ti te voeuret fa’ l’american?

Mi ero ripromesso di non concentrarmi sugli esempi di mala prassi (o prassi del tutto assente) nel campo della traduzione e della comunicazione bilingue italiano-inglese. Mi ero proposto di parlare solo di idee – possibilmente costruttive – e di evitare di parlare di fatti o persone (per non essere tacciato da Eleanor Roosevelt di avere una mente mediocre) o di sollevare critiche al lavoro (o noncuranza) altrui. Non perché non voglia prendere posizione in merito, ma perché forse si aprirebbe una voragine di cattivi esempi di cui l’Italia sembra afflitta. E mi dispiace perché l’Italia vanta un’altissima tradizione in campo traduttologico, oltre che ad annoverare delle eccellenti penne, e quindi rende ancor più incomprensibile l’inarrestabile scempio in cui ci si imbatte quotidianamente in Italia quando si parla di materiale tradotto. Scempio dovuto, spero, all’approssimazione. O almeno lo spero, perché se si parla di approssimazione, il tiro può essere ancora corretto. Se vi fossero altre motivazioni, magari di natura economica, allora mi auguro che l’Italia non sia finita nell’incresciosa condizione di dover recuperare qualche colletto consumato sottraendo denari dalle tasche dei professionisti della traduzione. O peggio ancora, non investirvici nemmeno un centesimo.

Qualche tempo fa una mia studentessa, conoscendo la mia passione per i bagel, fino a pochi anni prima introvabili in Italia, mi passò un volantino che pubblicizzava l’arrivo in una grande città italiana di un negozio che voleva porre rimedio a questa grave lacuna culinaria. Se dapprima rimasi entusiasta all’idea di assaggiare un bagel in loco senza dover prendere un volo per Manhattan, ben presto l’entusiasmo svanì quando iniziai a notare che l’opuscolo conteneva degli errori plateali, ridicolizzando il lodevole tentativo di introdurre in Italia un prodotto culinario di matrice ashkenazita-polacca, poi diffusosi lungo la costa orientale nordamericana assurgendo a simbolo culturale squisitamente (è il caso di sottolinearlo) americano.

Il resto dell’opuscolo-menù conteneva ahimè varie altre sviste in inglese che lasciavano trasparire una certa sciatteria ortografica e, ancora più grave, una poca famigliarità con la terminologia del settore. Il che mi portò ad adombrare sospetti più che fondati: i bagel erano autentici? L’azienda era preparata? Perché dunque questa noncuranza verso la lingua e la correttezza della comunicazione?

Forse perché il lavoro di traduzione viene spesso assegnato a dei non professionisti? Perché tanto il pubblico italiano, spesso linguisticamente impreparato, non coglierebbe queste sottigliezze? Perché non esiste una cultura che apprezza la precisione dell’esposizione?

Sperando che un giorno la prassi di rigirare i colletti della traduzione prima o poi finisca e che le aziende in Italia la smettano di prendere gli italiani per il bavero linguistico, auguro a tutti un buon bagel!

Rigorously handmade? Do tell.

Interessante come l’avverbio italiano rigorosamente sia usato in varie collocazioni italiane. Forse la più comune, rigorosamente vietato, ha ragione di esserlo in quanto enfatizza un divieto. Poi ci sono, in maniera sempre più diffusa, rigorosamente fatto a mano o rigorosamente fatto in casa, sovente incontrate nel linguaggio pubblicitario o didascalico. Ci sono persino scuole di lingua che offrono lezioni rigorosamente in lingua o aziende che vendono abiti rigorosamente Made in Italy.

Meno interessante è come rigorosamente spesso si sia infiltrato in traduzioni del tutto approssimative verso l’inglese. Se, ad esempio, avvio una ricerca per verificare le collocazioni in inglese, i siti che presentano rigorously handmade sono tutti italiani. In inglese dire che una cosa fatta a mano sia stata fatta ‘rigorosamente’ non ha molto senso. Al massimo una cosa fatta a mano può essere wholly handmade, in tutte le sue parti, oppure carefully handmade. Cosa sottintende o cela dunque l’italiano con quel rigorosamente? L’ enfasi sottintende forse una clausola di esonero da possibili responsabilità? Una sorta di liberatoria? Perché questo voler insistere con un avverbio che, diciamolo, è abbastanza pesantuccio? Sottintende forse una certa propensione – tutta italiana – alla truffa, al raggiro, alla contraffazione? E che quindi rigorosamente funge da contrappeso? Perché mai, in fondo, una scuola di lingue dovrebbe pubblicizzare i propri corsi con insegnanti ‘rigorosamente’ madrelingua? Non è sufficiente che siano madrelingua? Perché un’azienda tessile italiana deve ricordarci che un capo da essa prodotto è ‘rigorosamente Made in Italy’? A parte che in italiano basterebbe un semplice ‘prodotto in Italia’. A parte che Made in Italy sia una trovata ingegnosa per darsi delle arie oltreconfine. A parte che in inglese ‘rigorously Made in Italy’ sa di calco bello e buono. Ma tralasciando tutte queste considerazioni, l’uso improprio di rigorosamente è come la mosca nel latte. E spesso sortisce l’effetto contrario, alla stregua di una exusatio non petita, accusatio manifesta.

Per contro, in inglese una legge può essere applicata rigorosamente (enforced rigorously), un medicinale testato rigorosamente (tested rigorously) o, più in generale, nelle scienze, le analisi e gli esperimenti vengono condotti rigorosamente. In questi casi, le collocazioni inglesi trovano una corrispondenza pressoché identica a quelle italiane. Per il resto, l’inglese, forse più pragmatico e razionale in materia di collocazioni, non associa rigorously a verbi, sostantivi o aggettivi a meno che non sia indispensabile, trovando superfluo, o talvolta fuorviante, l’uso che l’italiano ne fa di questo avverbio in altri contesti. E, se vogliamo dirla tutta, anche l’italiano ne potrebbe fare a meno.

Dica.

Order! Order!

I always try to give anything that remotely resembles an Italian state-run office a wide berth. However, this is not always possible and I often find myself having to interact with badly trained office staffers whose usual form of greeting is an abrasively peremptory Dica. Not Buongiorno, come posso aiutarla? Or Mi dica pure, which would take the edge off this detestable imperative. Hell no, an out-and-out Dica without the slightest hint of a smile (and would you please be quick about it as I have many important things to attend to). To confound or irritate fellow Italians and foreigners alike, this most odious of words is often uttered in barely furnished premises (but for the omnipresent take-a-number ticket dispenser), vacuous hallways and deserted information booths. A sign that, on an average working day, most Italian civil servants are not exactly running themselves into the ground. So why all the dismissiveness?

Dica!

Far from being bandied about in civil service milieus only, I, too, have had the misfortune of being addressed with a curt Dica in shops, restaurants and coffee bars on several occasions. Even when garnished with a smile, Dica just comes across as plain unfriendly or mind-numbingly perfunctory at best. So why do some Italian speakers seem to use it so nonchalantly? Are they perhaps unaware of the overtones it conveys? Am I the only speaker of Italian whose feathers are ruffled whenever a Dica is hurled my way?

Interestingly, all it would take to make Dica sound somewhat more polite would be a Mi in front of it and a pure right after it. Unfortunately – for the sake of conciseness perhaps – this is not always the case and I, as an anthropologically curious translator, have taken it upon myself to do a little research to find out why this is the case and whether other Romance languages have similarly direct salutation forms.

My findings seem to point to a refreshing lack of such acerbic gambits in several other languages I have taken into consideration. But I may be wrong. In French, it is safe to assume that a literal Dites-moi blurted out of context could easily cause a diplomatic incident. In this regard, the Canadian writers Julie Barlow and Jean-Benoît Nadeau have published an insightful book that is well worth a read if you wish to succeed in communicating effectively in the Hexagone.

Julie Barlow and Jean-Benoît Nadeau explain how a simple ‘Bonjour’ can get you off on the right foot when in France.

So I turned to Spanish and Portuguese to see if anything of this sort occurred in these kindred languages. In Spanish Diga or Dígame are common expressions to say ‘hello’ when picking up the phone. I believe a Buenos días is always the way to go in customer service jobs in both Spain and Spanish-speaking America. In Portuguese, phrases like Diga or Diga lá are synonymous with the Rioplatense Spanish Dicelo ya or standard Spanish Dilo/Digalo, which would mirror the Italian Dillo/Lo dica – again an impatient-sounding imperative.

So we’re left with this false conundrum: as there is no hard evidence that other languages would condone a stray Bitte? a cursory Prego? or a drawn-out Yes?, then we can safely assume that Dica is idiosyncratic to Italian and that next time I hear it I will reply by clicking my heels while rendering a military salute.

‘Dica?’ – ‘Comandi’

Modulation and phrasal verbs

Modulation is defined as a ‘change in point of view’ that allows us to express the same phenomenon in a different way. At times modulation is the only way (lexicalized or compulsory modulation), such as in the time when, where when becomes ‘where’ in the French translation le temps où. At other times, however, modulation is free, i.e., because the target language rejects literal translation, thus adding a more interesting dimension to the translation process, while obliquely providing the translator with plenty of room for creativity.

Vinay and Darbelnet’s enlightening work.

This type of free modulation often includes a transfer from abstract to concrete, e.g.: l’ultimo piano = the top floor; te lo lascio = you can have it; un film in esclusiva = a first-run movie; cause and effect: uno stagno misterioso = a sequestered pool; it baffles analysis= sfugge all’analisi; means and result: firewood = legna per il fuoco, and so on and so forth. Incidentally, these examples have been extrapolated from the groundbreaking 1957 book by J.P. Vinay and J. Darbelnet Stylistique comparée du français e de l’anglais. An enlightening read that has since led me into focusing my attention on yet another area where modulation is often necessary: phrasal verbs.

Take the following example in Italian: Quel truffatore gli ha rubato fino all’ultimo centesimo. This sentence could be easily translated, quite literally, as: That con man stole every last cent from him. What if, however, we chose to use modulation to make this sentence sound a little more idiomatic in English and tried something like: That con man gulled him out of every penny he had? Or, along the same lines, È stato defraudato dell’eredità could similarly be rendered literally as He has been defrauded of his inheritance or, through modulation, slightly more idiomatically, as They did him out of his inheritance. This is usually not a problem when such verbs can lead to multiple options, but how about phrasal verbs that are culturally ingrained or slangy or that seem to defy a comprehensive definition in the target language? Like hang out in the Garfield strip above. Would a simple uscire do the trick here? Or andare/stare in giro? I often wonder how the meaning of this phrasal verb can be fully modulated into Italian, since the Italian uscire or stare in giro does not necessarily convey the idea of passing the time leisurely or, more often, aimlessly.

Similarly, if we were to translate a sentence like: Ci pensò e ripensò ma non riuscì a trovare una risposta, a literal translation would probably fall wide of the mark, as Italian tends to use verbs signaling repetition, whereas English would likely resort to a phrasal verb. Hence, a possible translation could be He chewed the matter over but couldn’t come up with an answer.

Phrasal verbs containing the verb ‘get’ offer countless opportunities for modulation

Interestingly, phrasal verbs containing get contain a wealth of potential avenues for modulation from Italian into English. If an Italian college student were to say: Non passiamo all’anatomia prima del secondo anno, a first attempt could lead to We don’t start anatomy until the second year, though we lose the idea of ‘upgrade’ from an easier subject to a more challenging one. Sifting through the realm of phrasal verbs might generate a few more idiomatic ideas, such as We don’t get on to anatomy until the second year. Yet another example of a phrasal verb thankfully coming to the rescue when an unassuming verb like passare is seemingly ready to trip you up.

So while it may seem self-evident that idiomatic usage in a language will inevitably call for modulation, thinking of an appropriate phrasal verb when translating from Italian into English can often provide a viable solution.

Be’, è un po’ impegnativo però.

I had never noticed how often Italians use the word impegnativo before I got myself a very large puppy that attracts everyone’s attention every time I take him out for a walk. I’m not even going into all the weird questions I get asked about my big boy, but one thing that I did notice is the frequent use of impegnativo, which roughly translates as demanding or challenging, and that is invariably tossed my way when I’m out and about with my dog.

I’ve always found it odd for passersby to define my choice of having a large pet as a companion as impegnativo, as though I had just announced my plan to climb the K2 or take out a multi-million loan to restore an abandoned castle in Auvergne.

I have since taken note of how frequently Italians seem to resort to this adjective as an all-purpose reply to certain situations that, quite frankly, I would deem less than challenging or far from demanding.

The term impegnativo encompasses the idea of a commitment (impegno) or an awesome responsibility with fearsomely binding legal implications verging on promissory estoppel. Surely – I keep telling myself – having a large-sized dog shouldn’t warrant such – albeit passing – comments.

Interestingly, the range of Italian collocations featuring impegnativo is quite varied and it can become impegnativo (troublesome) for the translator to find appropriate collocations in English. For instance, in Italian a dress may or may not be impegnativo. Would this be a formal dress in English? A present may also be referred to as impegnativo or poco impegnativo, which usually means it is either expensive or not so expensive, but if it’s to be given, say, on Valentine’s Day, it may also hint at the fact that an expensive gift, or a regalo impegnativo, could also lead to a more committed relationship.

I would normally confine impegnativo to a demanding task or a taxing job. An exam perhaps. But why would my dog be impegnativo? Any dog, regardless of its size, is a responsibility insofar as it has to be fed, groomed and walked, but mostly loved and cherished. Why would anyone feel it burdensome (incidentally another way of connoting impegnativo)  to welcome a pet into one’s life? So I decided to look further into the matter to try to get to the bottom of it. I researched, inconclusively, other Romance languages to see whether they, too, contemplated a similar word. However, it seems to me that the Spanish laborioso just means demanding or time-consuming and if associated with a dog as in perro laborioso, it would mean a hard-working dog. Perhaps a perro exigente (exigente in Portuguese or exigeant in French) would come close, but then again Italian also has esigente, which has a rather different connotation from impegnativo.

So is this yet another culture-specific word whose meaning Italians have decided to extend to a variety of contexts? If so, would it be far-fetched to surmise that some Italians are disinclined to commit themselves to much in life? Or are they implying that my dog is high-maintenance or merely a lot of work? Either way, in a world where everyone seems to be impegnato (busy) or pieno di impegni (with a lot on one’s plate), calling my gorgeously laid-back dog impegnativo just sticks in my craw and rankles with me long after my Newfie and I have waddled by.

A trapezista das línguas neolatinas

Acho que a beleza da língua portuguesa, especialmente em sua variante brasileira, deve com certeza sua musicalidade à incrível variedade de sons da sua estrutura fonológica. Isso faz com que seja uma acrobata entre as línguas românicas, graças à sua combinação de vogais e fricativas passando por glides nasais e trintongos, sempre mantendo seu próprio ritmo sincopado e entonação languida , exatamente como o ritmo da bossa nova, a que bem se adapta.

Tudo que eu sei é que o português realmente tem uma batida diferente com seus acrobacias sonoras, como canta Leny Andrade. Uma batida diferente, que o italiano ou o espanhol parecem não ter. Pelo menos não na mesma medida.

Quando ouço Elis Regina cantando O Bȇbado e A Equilibrista percebo como a língua portuguesa é a rainha das acrobacias. Começa suavemente. Arranha ocasionalmente com suas ‘r’, arrastando os pés com africadas surdas, antes de mostrar a extensão de suas poderosas vogais. E antes de mostrar o céu com a última sílaba de ‘continuar’.

E enquanto o ritmo do português falado é inebriante, a linguagem escrita é igualmente fascinante com seus grafemas incomuns e combinação de caracteres. Tente escriver ou pronunciar a palavra desenrascanço, uma palavra que descrive perfeitamente o orgulho ‘tuga’, e uma palavra que dificilmente pode ser traduzida.

Por fim, para os tradutores que têm a sorte de trabalhar com o português, aqui estão alguns livros que usei ao longo dos anos para aprender mais sobre essa lingua maravilhosa.

Grisella o ratline?

Noto spesso con interesse come l’inglese riesca, a volte meglio dell’italiano, a infliggere un doppio smacco linguistico grazie al potere evocativo e connotativo ad esso intrinseco e alla fitta trama di polisemie che ne forma il tessuto. Prendiamo ad esempio il termine grisella, ai più termine ignoto, probabilmente di origine genovese (per assonanza o forse una storpiatura di ‘graticella’), che denota un elemento traversale sulle sartie e che funge da gradino sull’alberatura di un’imbarcazione. Un termine insomma che non evoca alcuna immagine mentale immediata e particolare finché non lo so si associa a grata o reticolo, o finché non lo si apprende come significato tout court. Per contro l’equivalente in inglese, ratline, evoca immediatamente il ratto che corre lungo le sartie e, nella sua accezione storica, associa le qualità nefaste del ratto ai nazisti in fuga sulle navi dirette per l’America del Sud. Tant’è che l’italiano ne ha assunto la medesima dizione in questa accezione storica del termine. Perché dunque l’italiano spesso cade nel prestito e non crea o rigenera idee proprie? Sono le lingue romanze meno agili delle lingue germaniche nel generare termini composti?

Tecnicamente l’italiano è capace di creare parole composte con suffissi, prefissi e accostamenti di sostantivi, ma spesso sembra riluttante ad adottarli. Sia nella mia esperienza diretta di parlante e interlocutore che attraverso letture di blog e articoli sul tema, mi sembra di capire che spesso i linguisti italiani concludono con giudizi estetici sulla lunghezza o l’ineleganza di certe parole. O sull’uso tecnico o arcaico di altre. Con la conseguenza che molte parole diventano davvero arcaiche a furia di non usarle.

Un recente e simpatico esempio di creatività di parole composte delle lingue germaniche proviene dal danese, che è riuscito a creare burkabil e per discendenza burkabilist per designare l’auto (e l’automobilista di tale auto) ricoperta di neve e il cui proprietario si è limitato a raschiare uno spiraglio sul parabrezza.

Nel caso di ratline, tuttavia, benché non ve ne sia traccia nei dizionari cartacei tradizionali, il termine appare sul sito treccani.it. Rubato direttamente dall’inglese. Eppure il concetto è squisitamente italiano. La ratline trova il proprio tramite al porto di Genova con la connivenza, o presumibilmente la correità, di personaggi chiave italiani e vaticani. Sorge quindi il dubbio che ci fosse una tacita volontà perché il concetto non venisse alla luce in lingua italiana ancor prima di essere obliterato da una memoria collettiva che ne era ignara. Forse qualcuno avrebbe preferito che le tracce di questa idea svanissero nella schiuma delle onde dell’Atlantico. Ma si sa che le sartie e le griselle sono le ultime parti ad affondare in un naufragio e le prime a riemergere e a cui i ratti si appigliano durante il tentativo di fuga.

Tentativo in questo caso fallito grazie all’apporto dell’inglese. A buon rendere.

Några av mina favoritord och uttryck

Det är riktigt svårt att skriva på svenska om du brukar skriva på danska, men min framlidna svenska professor Hedvig Agda Margareta Lokrantz skulle vara stolt över mitt försök.

Jag träffade Lokrantz första gången i början av 1990-talet när jag bestämde mig för att börja lära mig danska. Så småningom utexaminerades jag i skandinavistik. Lokrantz, ursprungligen från Stockholm, var en karismatisk kvinna som var övertygad om att alla hennes elever skulle bli skickliga på minst ett av de tre skandinaviska språken, men hon ville också att de skulle lära sig att läsa och förstå de andra två. Lokrantz såg ut som en snygg och elegant SAS-flygvärdinna från 1950-talet men hade en hjärna som kunde ha formats på en medeltida latinskola. Med sin starka utstrålning främjade Lokrantz internordisk språkförståelse.  I dag skulle jag gärna vilja dela mig av några av de svenska ord och uttryck som jag har kommit att uppskatta genom åren. Ett av dessa – och kanske min favorit – är fredagsmys som, inte helt olikt det danska hygge, inte har en direkt motsvarighet på engelska eller italienska. Det förmedlar tanken om mys i slutet av en arbetsvecka, kanske med ett vinglas framför en öppen spis i sällskap av familj eller vänner. Mys är ett intressant ord som svenskan använder på ett antal sätt: höstmys eller julmys, och det kan bli ett verb, jag älskar att mysa, eller ett adjektiv, (fredags)mysig.  

Jag tycker också om ordet vabba – eller vobba – kanske för att det inte finns på andra språk, inte heller i danskan och norskan. Det här beror förmodligen på att jag gillar det ”gummiaktiga” mjuka ljudet av dessa ord liksom planka, vaska, blunda och kolla. Det är förvånande att så många ord i svenskan som slutar på a, och alstra är definitivt min favorit. Det är ett elegant ord fullt av energi.

Och vad sägs om den vackra bild som skapas av det vackra ordet mångata? Danskan har maanbro, ett poetisk ord  som liknar mångata, men annars är det ett speciellt ord som inte finns på andra språk jag har studerat.

Falling off the turnip truck

Avoid superimposition.

Rutabaga, or swede, as the Brits call it, is not the only Swedish import into English (originally rotabagge, a dialect word from Västergötland), moped and ombudsman being a couple of examples. And because English and Swedish tend to share a number of lexical similarities and near cognates, translators working in this combination should always be vigilant when dealing with this language pair.

A glaring example – and quite an eye opener a couple of weeks ago as I was working on a text filled with quotations in Swedish – is the idiom att falla mellan stolarna or att falla mellan två stolar, which conveys the idea of shirking responsibilities or passing the buck. Confusingly, the English cliché fall between two stools looks awfully similar, but ay, there’s the rub. In English it means to fail to reconcile two conflicting courses of action. Apparently not so på svenska.

To make matters worse, other Scandinavian languages, seem to agree with the English meaning. At falle mellom to stoler in Norwegian does actually mean to fall between two stools and the expression seems to date back to the 14th-century Danish scholar Peder Laale, who apparently was so keen on proverbs that he collected a whopping 1200, including ” Mellom thwo sthoolæ faller artz paa iordhe” as it was spelled in medieval Danish. Modern Danish has sætte sig mellem to stole, which means to put oneself in an awkward situation. Again. quite close to the English meaning.

So why has Swedish taken a detour? Not sure. But it goes to show that as a translator, you should never let your guard down and if you don’t want to appear gullible, do your research first, or else you may end up spending the rest of your days eating rutabaga.