Mi sono imbattuto l’altro giorno in un libro del noto italianista Cesare Marchi, che a pagina 212 di In Punta di Lingua (Rizzoli, 1992), nel trattare il termine ‘cornuto’, prende come esempio forse il più famoso personaggio cornificato nella storia della letteratura: il povero Carlo (sic) Bovary.
Ora, uno si domanda come mai alla fine del ventesimo secolo – quindi ben lontani dalle manie degli squadristi fascisti di italianizzare la toponomastica e di addomesticare lo straniero – si incappi ancora in un Carlo Bovary. Era forse costui un italo-francese? Un oriundo nato in Francia?
Fa specie pensare che un linguista come Cesare Marchi, che aveva letto Flaubert chiaramente in traduzione, non si fosse mai accorto che già con la traduzione di Bruno Oddera nel 1973, le rese italianizzanti di Madame Bovary erano state svecchiate e Carlo tornava a essere Charles. Tanto più che già dalle prime pagine dell’originale c’è subito un Charbovari. Difficile dunque capire il senso di un Carlo in traduzioni o riferimenti novecenteschi.
Né mi è più facile comprendere – e tantomeno accettare – la decisione dell’editore Treves (o del traduttore Oreste Cenacchi) di italianizzare il nome dell’autore francese nella prima traduzione italiana di Madame Bovary uscita nel 1881. Il francese era una lingua dominante a Milano nel tardo Ottocento ed è strano pensare che un pubblico mediamente colto avrebbe provato un forte imbarazzo nel leggere Gustave sulla copertina del libro.