Ti te voeuret fa’ l’american?

Mi ero ripromesso di non concentrarmi sugli esempi di mala prassi (o prassi del tutto assente) nel campo della traduzione e della comunicazione bilingue italiano-inglese. Mi ero proposto di parlare solo di idee – possibilmente costruttive – e di evitare di parlare di fatti o persone (per non essere tacciato da Eleanor Roosevelt di avere una mente mediocre) o di sollevare critiche al lavoro (o noncuranza) altrui. Non perché non voglia prendere posizione in merito, ma perché forse si aprirebbe una voragine di cattivi esempi di cui l’Italia sembra afflitta. E mi dispiace perché l’Italia vanta un’altissima tradizione in campo traduttologico, oltre che ad annoverare delle eccellenti penne, e quindi rende ancor più incomprensibile l’inarrestabile scempio in cui ci si imbatte quotidianamente in Italia quando si parla di materiale tradotto. Scempio dovuto, spero, all’approssimazione. O almeno lo spero, perché se si parla di approssimazione, il tiro può essere ancora corretto. Se vi fossero altre motivazioni, magari di natura economica, allora mi auguro che l’Italia non sia finita nell’incresciosa condizione di dover recuperare qualche colletto consumato sottraendo denari dalle tasche dei professionisti della traduzione. O peggio ancora, non investirvici nemmeno un centesimo.

Accettereste questa banconota? Perché accettare una traduzione approssimativa?

Qualche tempo fa una mia studentessa, conoscendo la mia passione per i bagel, fino a pochi anni prima introvabili in Italia, mi passò un volantino che pubblicizzava l’arrivo in una grande città italiana di un negozio che voleva porre rimedio a questa grave lacuna culinaria. Se dapprima rimasi entusiasta all’idea di assaggiare un bagel in loco senza dover prendere un volo per Manhattan, ben presto l’entusiasmo svanì quando iniziai a notare che l’opuscolo conteneva degli errori plateali, ridicolizzando il lodevole tentativo di introdurre in Italia un prodotto culinario di matrice ashkenazita-polacca, poi diffusosi lungo la costa orientale nordamericana assurgendo a simbolo culturale squisitamente (è il caso di sottolinearlo) americano.

La grafia britannica e quel ‘Americans’ favourite’ anziché ‘America’s favorite’ dichiarano apertamente l’origine tutt’altro che americana del logo.

Il resto dell’opuscolo-menù conteneva ahimè varie altre sviste in inglese che lasciavano trasparire una certa sciatteria ortografica e, ancora più grave, una poca famigliarità con la terminologia del settore. Il che mi portò ad adombrare sospetti più che fondati: i bagel erano autentici? L’azienda era preparata? Perché dunque questa noncuranza verso la lingua e la correttezza della comunicazione?

Forse perché il lavoro di traduzione viene spesso assegnato a dei non professionisti? Perché tanto il pubblico italiano, spesso linguisticamente impreparato, non coglierebbe queste sottigliezze? Perché non esiste una cultura che apprezza la precisione dell’esposizione?

Sperando che un giorno la prassi di rigirare i colletti della traduzione prima o poi finisca e che le aziende in Italia la smettano di prendere gli italiani per il bavero linguistico, auguro a tutti un buon bagel!